Pasquale Brancatisano,
nato a Samo di Calabria. Un signore anziano ma ancora
arzillo e vivace, soprattutto, partigiano durante i duri
anni che vanno dal 1943 al 1945. Partigiano durante la
Resistenza del Paese contro il potere nazi-fascista e
durante una delle fasi più drammatiche e convulse
(l’Italia in quel periodo era giunta ad avere ben cinque
governi diversi all’interno del proprio territorio).
Incontro Pasquale
Brancatisano in un’assolata giornata di fine agosto di
questo 2014. Lo trovo vigile, concentrato e sempre
estremamente sicuro delle sue idee e delle convinzioni
che lo hanno guidato 70 anni fa ad abbracciare la lotta
armata contro i nemici della democrazia e della libertà.
Gli porgo la mia prima domanda.
– Come è iniziata
la sua storia di partigiano?
Io sono stato un soldato.
Dal 7 gennaio del 1941, avevo 20 anni, mi sono trovato
ad essere di leva. Fino ai primi di novembre del 1941 ci
hanno portati a Vibo Valentia. In questa città fu
formato un battaglione di complemento. L’obiettivo
militare verso il quale era indirizzata la formazione di
quel battaglione era la Jugoslavia, terra in quel
momento occupata da italiani e tedeschi. Giorno 4
novembre ci siamo quindi imbarcati per Bari. La
direzione era sempre la Jugoslavia. Infine siamo
arrivati a Durazzo. Lì siamo rimasti fermi per mezza
giornata. Al termine di quella lunga attesa è arrivato
l’ordine che si riferiva al nostro imbarco per la
Jugoslavia. Siamo così arrivati nel Montenegro. In quel
posto ho camminato per 4 giorni a piedi assieme a tutti
i miei commilitoni. Giungemmo così in un posto di
riserva che raccoglieva i soldati dei vari battaglioni.
Lì sono iniziati i combattimenti. Più tardi ci siamo
spostati verso Nisic sempre nel Montenegro. A quel punto
ci hanno destinati al nostro reggimento. Il mio era il
207 “Fanteria”. Io allora finii nella 10ª Compagnia. Per
ben tre mesi fummo circondati dai partigiani slavi.
trascorsi tutto quel periodo senza notizie dei miei
familiari e senza viveri da casa. Gli Alpini ci
liberarono solamente gli ultimi giorni di febbraio.
Nella primavera del 1942 abbiamo però rastrellato
completamente il Montenegro. Il 4 agosto ci siamo
imbarcati per l’Italia. E il giorno dopo, il 5 agosto,
di nuovo siamo giunti a Bari. Di seguito sono stato per
15 mesi ad Alessandria, in Piemonte. Nottetempo è
arrivato allora l’ordine di rientrare in Francia. In
Costa Azzurra faceva molto più caldo che qua. Alla fine
rimasi “sbandato” in Francia fino all’8 settembre del
1943. Di fronte a due mitragliatrici puntate contro di
me sono riuscito a scappare dalla mano tedesca. Me la
sono filata nel bosco. Ho retrocesso; sono andato sempre
più indietro nel bosco con 30 kg di armamento sulle
spalle ed il tutto a costo della vita. Alla fine del
bosco c’era una casa molto vecchia che era abitata da
una donna la quale aveva anche due bambini. La donna si
è rivolta a me in italiano: “Noi siamo di Gaeta”. Io le
avevo parlato all’inizio in francese. La donna a i suoi
figli erano in quel posto da oltre un mese. I Tedeschi
li avevano portati lì a bordo di un treno perché il
posto dal quale venivano era distante 200 km lungo la
linea francese. Un altro particolare agghiacciante di
quella spedizione era costituito dal fatto che non
appena la tradotta fu partita i tedeschi stessi
l’avevano mitragliata a lungo. Sono rimasto in casa con
la donna fino a quando è arrivato il marito che giunse
in compagnia di un'altra figlia. Quella donna mi ha
completamente rifornito di vestiti. Alla sera in quella
casa tutti noi abbiamo ballato e cantato; eravamo felici
di essere sfuggiti ai tedeschi. Io ho mangiato e fino a
mezzanotte siamo stati in quella casa. A 100 metri c’era
un viottolo: mi sono vestito da borghese – come erano
vestiti da borghesi tutti gli inquilini di quella
abitazione. Quei signori mi hanno dato una bottiglia di
vino, un cappotto e una coperta. Ho cominciato così il
mio attraversamento lungo le montagne.
– In questa sua
storia di partigiano si intreccia anche quella più
strettamente privata di poeta. Quando è che lei, nel
corso delle sue vicissitudini, si è avvicinato alla
letteratura e alla scrittura?
Io sono nato a Samo il 20
dicembre del 1921. Ho potuto frequentare solo le prime
classi della scuola elementare. Non avevo, quando
scoppiò la guerra, un’istruzione
adeguata. Tuttavia quella coppia di
rifugiati mi regalò persino un vocabolario che faceva
anche da antologia e da atlante. Ho cominciato cosi a
passare il mio tempo consultando quel libro. La
mattinata successiva a quando lasciai l’abitazione di
quei due, incontrai un siciliano. Ricordo che mentre io
ero di fanteria lui era di artiglieria. Gli ho ceduto un
paio di pantaloni ed il cappotto. Questa persona mi
chiese se ce l’avessi fatta a scappare ancora di più e
più lontano. «Più montagne vedo e più forte vado» gli
dissi io. In realtà alla fine abbiamo camminato molto e
molto a lungo in quei giorni. Alla fine giungemmo su di
un’alta collina. Volevamo entrambi arrivare al paese di
Ieres. Lì stava un campo di concentramento con ben 3.000
italiani. Incontrai allora un uomo che proveniva da
Cuneo ed era completamente sordo. Costui mi ha intimato
di non proseguire più oltre perché davanti a noi c’erano
i tedeschi. Anche un altro uomo che stava portando della
legna mi confermò la stessa cosa. Non si poteva a quel
punto più andare avanti. Dunque siamo rimasti – io e il
siciliano – per otto giorni in quel bosco. C’erano circa
12.000 fuoriusciti francesi – a causa del fascismo – ed
erano tutti sparsi in ogni dove. La sera comunque
arrivavamo a racimolare una porzione di cibo e
riuscivamo così a cenare. Per altri otto giorni siamo
stati condotti in una ampia vallata al centro della
quale stava una capanna. Dopo l’oscurità che giunse
all’ottavo giorno ci fu detto allegramente che i
tedeschi se ne erano andati. Infatti era in quel momento
avvenuto il cosiddetto “Sbarco in Normandia”. Siamo
quindi stati altri sette giorni in quelle terre. Però
abbiamo iniziato a camminare a quel punto verso
l’Italia. Abbiamo attraversato le Alpi. Ci sono voluti
tre giorni durante i quali abbiamo dovuto attraversare
boschi fitti e pieni di pericoli. Abbiamo così raggiunto
il primo paese italiano: Migliens. Sono a quel punto
finito a Sant’Anna: ricordo di aver percorso una strada
molto particolare: tutta fatta di rocce. Ho lavorato in
quel periodo in una cascina.
– E fu lì che
avvenne il suo incontro con i partigiani?
Infatti. Sì. Quando
lavoravo in quella casina conobbi per la prima volta i
partigiani italiani. Era solo, in quale caso, una
formazione isolata. Decisi senza nemmeno chiedermelo di
unirmi a loro. Domandai al figlio di un partigiano di
quella formazione di farmi interloquire con suo padre.
In quel paese, io sapevo, esisteva proprio il comando
dei partigiani. Mi ci hanno condotto su di un carrozzino
e, guidato da loro, ho attraversato una strada segreta.
Alla sera sono arrivato nel posto in cui c’era il
comando dei partigiani e il padre di quel ragazzo.
Entrai così nella 16ª “Brigata D’Assalto Garibaldi”,
che, più tardi – nel 1944 – confluì nella 99ª “Brigata”.
– Quali furono le
motivazioni che l’hanno spinta alla scelta della lotta
armata? E quale fu il clima e l’ambiente che trovò
all’interno delle brigate partigiane?
L’Italia era completamente
distrutta. Le formazioni partigiane erano nate per
questo motivo. Il nostro pensiero era quello di
combattere il Fascismo in tutte le sue forme. E il
nostro pensiero era sempre quello di sterminare la
dittatura. Col 25 aprile siamo riusciti a pacificare il
paese: abbiamo portato finalmente la pace in Italia. La
nostra idea era: la libertà. Far finalmente vedere e
rendere noto al mondo che l’Italia poteva risorgere con
dei nuovi valori. L’uomo deve essere libero:
questo mi ripetevo nella mente durante quei giorni così
decisivi ed importanti. Noi abbiamo il dovere morale di
portare in Italia i diritti: diritto alla pensione,
diritto al lavoro, diritto alla sanità, ospedali,
aborto…
– Come si viveva
insieme con gli altri partigiani?
Fra di noi c’era una vera
e propria fratellanza di cuore. Si mangiava e si beveva
tutti insieme. Le cose si decidevano solo in virtù del
ragionamento. Si viveva come fratelli. Eravamo tutti
liberi. Il comando c’era, ma era solo una faccenda
formale: si viveva di comune accordo e per comune
sentire. Il nome di battaglia che io scelsi per me era
“Malerba”.
– Alla luce di
tutto quello che è avvenuto in Italia dopo la
“Liberazione” e nella sua stessa vita privata di
cittadino italiano, come giudica oggi quell’esperienza?
Oggi mi rendo conto, dopo
tante vicissitudini mie private ma anche pubbliche, che
quell’esperienza mi fu assai utile ed istruttiva. Da una
parte si combatteva per un ideale e dall’altra ho avuto
modo anche di studiare, di scrivere delle poesie e di
conoscere finalmente la cultura. Ricordo che al momento
della liberazione ci siamo diretti dalle Langhe a
Moncalieri. Anche a Torino c’erano diverse brigate
partigiane. In 100.000 siamo sfilati per le strade di
Torino. La gente urlava al nostro indirizzo:
“Viva
i partigiani, viva la libertà”.
Era la prima domenica di maggio. La guerra era finita e
le persone applaudivano. Tutto quello che noi
avevamo fatto era valso a qualcosa. Un'eco, una
parola soprattutto mi giunge anche oggi alle orecchie se
ripenso a tutta la mia esperienza di partigiano ed al
mio percorso di uomo: “Viva la libertà”. Ecco, appunto:
la libertà!
Gianfranco Cordì